La storia civica di Filippo Cogliandro, classe 1969, inizia nei primi anni Ottanta, con un telefono che squilla all’ora di cena: il babbo, Demetrio, va a rispondere, lo sguardo di mamma incollato addosso; un cenno ai cinque ragazzini perché tacciano e prima di alzare la cornetta schiaccia “play/rec”sul registratore.

Telefonate che fanno passare la fame, ma minacce e insulti fanno più rabbia che paura. I nastri si portano in caserma, come le denunce per le minacce pervenute in altra forma: una tanica di benzina lasciata di notte accanto al distributore di Demetrio, spari contro il portone di casa.

Lazzàro, 20 km da Reggio Calabria, è, in quegli anni, una specie di stato cuscinetto tra le zone di pertinenza di due famiglie di ‘ndrangheta. Lazzàro non è di nessuno, ma quell’area di servizio, solida nelle relazioni e nelle economie, va monitorata: «Bisogna capire bene a cosa serve il racket – chiarisce Filippo. – Le grandi famiglie non hanno bisogno degli spiccioli raccattati con il pizzo. Quelli li lasciano ai disperati che fanno la manovalanza. Ma la ‘ndrangheta segna il territorio. È l’infiltrarsi nel tessuto economico e sociale di una comunità, il controllo»….

Continua a leggere su slowfood.it